Pubblicato il
28-06-2023

Vita spericolata

La gestazione è stata più lunga del solito. I miei brani, in genere, nascono più facilmente. Ma, appena terminato, mi sono convinto di aver scritto un capolavoro, una di quelle canzoni che ti vengono una sola volta nella vita.
Vita spericolata

(Tullio Ferro-Vasco Rossi) – Vasco Rossi, 1983

Vasco Rossi: «Poi mi venne Vita spericolata. Pensai che era la canzone della mia vita e che sarebbe stato bello salire sul palco di Sanremo a cantare: “Voglio una vita maleducata, di quelle vite fatte, fatte così”. Ci giravo intorno da sei mesi. Mi mancava il verso giusto, il primo. Quando è arrivato, sono impazzito dalla gioia. Ero in Sardegna. Dovevo fare un concerto, ma pioveva e quelli erano anni in cui, se pioveva, dovevi cancellare tutto. Mi ricordo questo campo sportivo illuminato di notte, io ero in macchina. Mi venne: “Voglio una vita…» A quel punto, qualsiasi aggettivo andava bene. Vorrei aggiungere che non ho mai dato a quel termine ‘spericolata’ una valenza che avesse a che fare con le droghe, semmai con lo sport estremo, con la voglia di vivere con il piede sull’acceleratore, al massimo delle tue possibilità. Se però, per andare più forte, era necessario qualche additivo, oggi posso dire che ne valeva la pena.

La gestazione è stata più lunga del solito. I miei brani, in genere, nascono più facilmente. Ma, appena terminato, mi sono convinto di aver scritto un capolavoro, una di quelle canzoni che ti vengono una sola volta nella vita. E non ho minimamente pensato ai soldi che mi avrebbe procurato. Quando hai la fortuna di concepire una cosa del genere, pensi alla storia, non alla cronaca, non a che cosa mangerai domani. Potresti anche non mangiare più, che va bene uguale. Vita spericolata è il mio capolavoro perché mi rappresenta meglio di qualsiasi altra canzone: “Voglio una vita spericolata, voglio una vita come quelle dei film”. Voglio una vita come piace a me, insomma. Perché io non sono niente di eccezionale. Non sono un fenomeno. La vita la mando avanti come posso. Non sono Steve McQueen. Lasciatemi sognare, perché, come ho scritto anche nel mio Diario di bordo, ci sono dei giorni che è più bello sognare di vivere che vivere. E mi fa ridere che qualcuno dica che oggi non sono più trasgressivo, che dunque non ho più diritto di cantare Vita spericolata. È un momento della mia vita, una parte di me. Mi viene da dire, a quegli idioti: se non la posso cantare io, cantala te. Vediamo se sei pù attendibile.

Ho scritto quel brano pensando al mio amico d’infanzia Mario Giusti. Si trovava in una fase molto delicata della sua esistenza: si faceva di pere. È stato, il suo, un lungo viaggio di cinque anni nella droga. Io ero su altre strade, allora. Tutta la canzone, più che una lettera aperta alla mia gente, a quello che voi giornalisti chiamate ‘il popolo di Vasco’, era un discorso al mio amico. Quando dico: “E poi ci troveremo, come le star, a bere del whisky al Roxy bar” esprimevo una speranza, un augurio; quando dico: “O forse non ci incontreremo mai” davo voce a una mia paura. Questo era ciò che pensavo quando cominciai a scrivere Vita spericolata. Poi, però, a mano a mano che procedevo, apparivano altri elementi, altri fattori. E allora mi resi conto che stava venendo fuori anche un altro tipo di locale, che il Roxy bar poteva essere anche un omaggio a Fred Buscaglione. Oggi, per me, il Roxy bar è l’Aldilà, l’altro mondo inteso non come Paradiso, concetto cui non credo, ma come luogo dove un giorno ci ritroveremo tutti. Potrebbe essere casa mia, casa tua. Ecco perché non ho pensato a nessun bar vero. Il Roxy si chiama bar, ma non è un bar, capisci?

Mi chiesero anche di tradurla in tedesco. Va bene, dissi. Quando mi mandarono la traduzione, non credevo a quello che stavo leggendo. Invece di “Voglio una vita spericolata / voglio una vita come Steve McQueen”, c’era “Voglio una vita spericolata / voglio una vita come Erroll Flynn”. Ma si può? È mica la stessa cosa. Loro dissero che in Germania Erroll Flynn era come Steve McQueen in Italia. Non diedi il permesso, ovviamente».

 

 

Estratto da: Cotto, Massimo, Qui non arrivano gli angeli. Conversazione con Vasco Rossi, Reggio Emilia, Aliberti Editore, 2005, pp. 52-53/59-61