Pubblicato il
29-06-2023

Nel blu, dipinto di blu

Nel blu, dipinto di blu

(Franco Migliacci-Domenico Modugno) – Domenico Modugno, Johnny Dorelli, 1958

Com’è andata esattamente?

A quell’epoca abitavo a Roma, in via Vittoria. Modugno era un amico generoso, di consigli e soldi, guadagnava già benino, cantava, recitava, appariva in televisione. Allora lui, che aveva la macchina, mi propose di andare al mare. La mattina dopo alle 10 ero a piazza del Popolo, pronto. Lo aspettai per ore, ma Mimmo non si fece vedere. Ero infuriato, seppi poi che al mare c’era andato con Franca Gandolfi, sua moglie. Allora tornai a casa, in tasca avevo solo 300 lire, e decisi di comprarmi una bottiglia di Chianti per sbronzarmi. Mi addormentai e al risveglio, ancora mezzo addormentato, guardai due riproduzioni di Chagall attaccate sulla parete. Una era La femme au coq rouge, con il gallo rosso che vola nel cielo blu, l’altra era Le peintre et son modelle, col pittore che ha la faccia dipinta di blu. E lì vennero fuori le prime parole.

Qual era esattamente la prima versione?

Diceva così: “Di blu m’ero dipinto per intonarmi al cielo, lassù nel firmamento, volavo verso il sole, e volavo felice più in alto del sole, e ancora più su, mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù, volavo nel blu, dipinto di blu”. Sottolineo la virgola nale perché cambia tutto il senso. Ancora oggi mi chiedono se la virgola c’è o non c’è. Questa era la primissima versione. Da notare che era tutta all’imperfetto. La sera incontrai Mimmo a piazza del Popolo. Dissi che avevo scritto una cosa. Avevo buttato giù un’idea un po’ folle per una canzone folle. Lui spazientito voleva leggerla, io insistevo a spiegare, nché non mi strappò il foglio dalle mani, lo lesse e scoppiò in una di quelle sue fenomenali risate e disse: “Sarà un successo enorme”.

Come siete arrivati alla versione che tutti conosciamo?

Litigando a morte. Sei mesi di sfuriate. Una fu sulla parola ‘trapunto’ (di stelle), che io volevo togliere perché mi sembrava vecchia, lui mi disse: “Tu devi essere al servizio di un cantante e io ti dico che quella parola io la canto benissimo”. Ma alla canzone mancava uno sfogo, rimaneva compressa. Un giorno, questo me lo raccontò poi Franca, Mimmo era davanti alla nestra e un colpo di vento la fece aprire all’improvviso, e lui allora gridò felice: “Volare! oh oh”. A me, che amavo i futuristi, piacque subito l’idea di quella sequenza di inniti: volare, cantare. Così nalmente completammo la canzone. Conservo ancora la copia della vecchia versione, incisa su una lacca che realizzammo negli studi RAI, ma non l’ho mai tirata fuori perchè facemmo un patto con Mimmo e ho sempre tenuto fede alla promessa.

Perché quel successo travolgente?

Era un periodo magmatico, ma anche chiuso, noioso, eravamo giovani, volevamo rivoluzionare tutto, si viveva nella patria dei padri, mi ricordo la lotta per non diventare ragioniere, c’era la ricostruzione, io dissi a mio padre: “Perlomeno geometra, così disegno”. Ma lui disse: “No, ragioniere, perché ho un cugino in banca che può aiutarci”. Fu importantissima anche l’apertura delle braccia, perché rompeva lo schema dei cantanti dell’epoca. E il nale era strano, con quel secco “con te” senza enfasi. La canzone corrispondeva a tutte le aperture di quel momento: i satelliti articiali nello spazio, l’apertura del Festival dei Due Mondi, la stereofonia, sembrava che tutti i sogni si realizzassero.

Vi siete subito resi conto di quello che avevate in mano?

Il destino sembrava segnato. Per quanto folle, la canzone piacque all’editore, e anche ai selezionatori del Festival, però nessuno voleva cantarla, noi la presentammo come autori. I cantanti di allora dicevano che non stava né in cielo né in terra. Noi dicevamo: per forza, si chiama Volare. Fu Achille Cajafa, il direttore artistico del Festival a dire: “Il provino è bello, perché non la canta Modugno?”. Per trovare un partner dovemmo cercare un debuttante, uno che non avesse niente da perdere, e infatti accettò: era Johnny Dorelli. Ma gli altri cantanti la presero malissimo. Alle prove ero in platea e siccome nessuno mi conosceva, parlavano liberamente di Mimmo, dicendo cose tremende. Non voglio fare nomi, ma una cantante disse: “Ma ti rendi conto questo zingaro!”. Un’altra disse che gli puzzavano alito e ascelle, che almeno si lavasse. Il fatto è che si sentivano minacciati. Era un vero cambio della guardia. Ricordo che dovettero consolare Nilla Pizzi che aveva cantato L’edera ed era sicura di vincere. Gli altri erano composti, confezionati, Mimmo era sciolto, naturale, cantava con voce non impostata. Lo disse anche Massimo Mila: da Mimmo usciva l’uomo non il cantante.

Fu un successo istantaneo.

Me ne resi conto tornando a casa in treno. Mi fermai alla stazione di Firenze per andare a trovare i miei genitori e nella stazione ogni tanto si sentiva qualcuno che urlava: “Volare, oh oh!”. Mio padre mi disse: “Franco, ma cos’e successo?”. Ormai per lui ero irrecuperabile. Quando vincemmo due Grammy e la canzone esplose in America, dissi: “Bello, così facciamo un viaggio”. Mi ricordo che uscì un’edizione di PaeseSera con un inserto di quattro pagine bordate d’azzurro, con dentro politici, psicologi, artisti, scienziati, tutti che cercavano di spiegare il successo della canzone. Qualcuno disse anche che era una metafora sessuale.

Perché poi smise di lavorare con Modugno?

Difcile a dirsi. C’era una strana gelosia artistica, che a volte è più forte di quella amorosa. Non che a lui mancassero autori, per lui vollero scrivere Pasolini, Quasimodo, ma io ormai ero diventato un autore di mestiere, avevo successo anche con altri: Mina, Morandi, Nada… Non lavorammo più finché, quando già era malato, scrissi un testo per il figlio Massimo, Delfini: la cantarono insieme. Non ebbe successo, ma ogni volta che la sento mi commuovo».

Estratto da: Castaldo, Gino,  Volare oh oh. Intervista a Franco Migliacci, in: «La Repubblica», 5 luglio 2007, p. 45