Pubblicato il
29-06-2023

Creuza de mä

Creuza de mä

(Fabrizio De André-Mauro Pagani) – Fabrizio De André, 1984

Certe volte mi sentivo inorgoglito, altre volte deluso. Ma sempre in ogni caso un po’ vergognoso a vedermi quasi costretto a sfogliare le riviste specializzate, per scrutare con un occhio quasi da lumaca, fuori dalle orbite, quale posizione avesse ottenuto in classifica il mio ultimo, cosiddetto, prodotto discografico. Perché questo voleva dire che il disco, in quanto funzione oggettiva di consumo, aveva assunto un’importanza superiore a quella delle canzoni per le quali viveva, e nelle quali sinceramente mi sentivo di avere vissuto. Mauro Pagani la pensava allo stesso modo, forse anche per questo motivo: la reciproca stima, il progetto comune, il tentativo di ricondurre la canzone alla sua funzione primaria. Il canto ha infatti ancora oggi, in alcune etnie cosiddette primitive, il compito fondamentale di liberare dalla sofferenza, di alleviate il dolore, di esorcizzare il male.

Certo le canzoni le abbiamo comunque registrate, a noi sembra con buoni risultati tecnici. Però penso che mai, come nel caso di Creuza de mä, di questa “mulattiera di mare”, traduzione volutamente approssimativa, per quanto desiderava essere descrittivamente precisa, mai come in questo caso — dicevo — il disco ha assunto una funzione molto ridotta rispetto alle canzoni di cui vive. Dicevo pure la funzione che può avere la stringa nei confronti di una scarpa, o addirittura nei confronti di un mocassino.

Ci sono sicuramente altri motivi per cui si è deciso di fare canzoni di questo tipo. Motivi tutti ugualmente di rilievo e a cui sinceramente non riuscirei a dare un ordine di importanza. Ad esempio la scelta stilistica. Una volta individuati gli strumenti etnici che, in quella che qualcuno ha voluto chiamare una piccola Odissea, volevano ricondurci all’atmosfera del bacino del Mediterraneo, dal Bosforo a Gibilterra, era necessario adattare, ai suoni che tali strumenti riproducevano, una lingua che ci scivolasse sopra, che evocasse attraverso fonemi cantati (indipendentemente quindi dalla loro immediata comprensibilità) le stesse atmosfere che gli strumenti evocavano. A noi la lingua più adatta è sembrata fosse il genovese, con i suoi dittonghi, i suoi iati, la sua ricchezza di sostantivi ed aggettivi tronchi che li puoi accorciare o allungare quasi come il grido di un gabbiano.

Estratto da: Sassi, Claudio/Pistarini, Walter, De Andrè Talk. Le interviste e gli articoli della stampa d’epoca, Roma, Coniglio Editore, 2008, pp. 275-276